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Riflessioni

Valeria Ronchini

in nn. 2-3/2006
Negli ultimi 5 anni, abbiamo assistito ad una proliferazione di corsi di archivistica, catalogazione fotografica, restauro e “gestione del bene culturale” senza precedenti, legata forse alla diffusa disoccupazione intellettuale e all’aumento della richiesta di specializzazioni post laurea, che illudono numerosi neolaureati di riuscire in questo modo a collocarsi più velocemente.

In realtà, come spesso accade, quantità non è sinonimo di qualità, così come, a volte, il nome di grandi università o enti culturali cela programmi di formazione lacunosi, disorganizzazione, se non autentiche ‘fregature’.

In base alla mia esperienza, e a quella di altri compagni di scuola, i maggiori disagi riguardano non tanto la didattica, generalmente garantita da buoni docenti (peraltro spesso gli stessi, anche se in corsi organizzati da enti diversi), quanto piuttosto le prospettive successive. Innanzitutto, l’occasione di fare dei ‘buoni’ stage è scarsa, nonostante per molti archivi si tratti di una ghiotta occasione per avere buona mano d’opera a costo zero. Inoltre, questi corsi promettono tutti, o quasi tutti, l’equiparazione al diploma conseguito presso le scuole di archivistica degli archivi di stato e l’accesso ai concorsi pubblici. La realtà, purtroppo, è ben diversa. Personalmente, ho seguito nel 2002 presso l’Università degli Studi di Milano un master in archivistica (fortunatamente con ottimi docenti) della durata di 9 mesi e a frequenza quotidiana, per poi dovere frequentare per intero anche la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica per tutti e due gli anni previsti.
Al termine di questi 3 anni di specializzazione, ritenevo che fosse scontato l’accesso a qualsiasi concorso pubblico, ma nel giugno del 2006 il Politecnico di Milano ha rifiutato la mia domanda di ammissione ad un concorso per archivista storica, in quanto consideravano come unico titolo valido il diploma magistrale in scienze archivistiche. Ho replicato di avere ben più titoli di quelli richiesti, alcune pubblicazioni e un’esperienza di lavoro di cinque anni presso un noto archivio storico, ma non è valso a nulla e, ironia della sorte, il posto è andato all’unica nostra compagna di scuola che non ha conseguito il diploma…
Desidero concludere questa testimonianza che, lo ammetto, è anche un po’ uno sfogo, con alcune considerazioni e proposte:
ritengo che l’onorata Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica non sia affatto obsoleta e polverosa come può sembrare a confronto di molti master patinati: va riformata e aggiornata, è vero, e da sola non basta a coprire il patrimonio di conoscenze che un buon archivista dovrebbe avere, tuttavia consente davvero di approfondire e interiorizzare molti concetti base complessi che rientrano nella formazione teorica e, soprattutto, a causa della durata e dell’impegno che richiede, permette di distinguere chi davvero vuole fare l’archivista da molti che si improvvisano tali per il fascino che questa professione esercita o perché non sanno bene che altro fare.
Proporrei quindi di riaffermare il valore del diploma come unico titolo valido per la formazione base degli archivisti e come l’unico abilitante all’accesso ai concorsi pubblici e agli incarichi, anche di collaborazione o a termine, presso enti pubblici e soprintendenze. Questa “restrizione” degli accessi alla professione mi sembra essenziale per garantire un ruolo di esempio e “traino” da parte dell’amministrazione statale verso le aziende e gli enti privati e per garantire lavoro a tutti coloro che hanno fatto di questa professione una scelta di vita.
La formazione successiva e gli approfondimenti e/o aggiornamenti professionali possono sicuramente essere garantiti da corsi e master, che però si avvantaggerebbero di avere davanti degli utenti già muniti di un medesimo grado di preparazione.
Ringrazio nuovamente per l’occasione di confronto, che mi auguro produca presto risultati che contribuiscano a migliorare lo stato di salute dell’archivistica italiana. 

Fondazione Ansaldo